Approfondimento: La crisi del debito sovrano in Europa (con aggiornamenti in progress)

E' vero, sono un'insegnante alla scuola serale...e conosco il famoso detto:
Chi sa, fa  - Chi non sa, insegna!
...Non sapendo far di meglio,  ecco quindi una sezione dove si possono trovare degli approfondimenti su temi di attualità, sintetizzati, rimaneggiati, rimasticati, a scopo didattico.
Sono ammessi e graditi suggerimenti e precisazioni, purché garbati!

Ecco la pillola:
LA CRISI DEL DEBITO SOVRANO IN EUROPA
Le premesse della crisi: i tassi bassi e la competitività della Germania
L'euro è entrato ufficialmente in vigore il 1 gennaio 1999 come moneta virtuale, nei conti bancari e nei trasferimenti elettronici denominati in euro; tre anni dopo è stato fatto il concreto passaggio nel circolante: euro in tasca al posto di franchi, marchi, lire.
L'euro è diventato una delle principali valute internazionali: banconote in euro hanno iniziato a circolare in tutto il mondo, e il mercato delle obbligazioni in euro ha presto cominciato a competere con il mercato obbligazionario in dollari. La creazione dell'euro ha instillato un nuovo senso di fiducia, specialmente in quei paesi europei che venivano storicamente considerati come paesi a rischio per gli investimenti.
La politica monetaria della BCE è stata basata soprattutto sulle esigenze della Germania: la scarsità della domanda interna causata dalle politiche tedesche di moderazione fiscale e salariale richiedeva dei tassi di interesse abbastanza bassi, tali da non deprimerla ulteriormente. I tassi reali però risultavano assai bassi nei paesi periferici, caratterizzati da una inflazione strutturalmente sopra la media europea.
Questi paesi, che prima avevano tassi alti, furono presi dall'euforia dei prestiti. I flussi di capitale a buon mercato hanno così determinato un boom edilizio e un indebitamento delle famiglie in Spagna e Irlanda, e del settore pubblico in Grecia.
In Grecia è stato soprattutto il governo ad accendere grossi prestiti: durante gli anni di prestito facile, il governo conservatore greco ha fatto un sacco di debiti - più di quanto ammesso dal Patto di Stabilità. Quando il governo è cambiato, nel 2009, i trucchi contabili sono venuti alla luce, e improvvisamente è apparso che la Grecia aveva un deficit e un debito sostanzialmente molto più grandi di quanto non si pensasse, con una conseguente crisi di fiducia da parte degli investitori che hanno comiciato a pretendere rendimenti più alti per comprare titoli del debito greco, aggravando sempre più la situazione.
Ma la Grecia è in realtà un caso poco rappresentativo. Solo pochi anni fa la Spagna, di gran lunga la più grande delle economie in crisi, era un membro europeo modello, con un bilancio in pareggio e un debito pubblico in percentuale del PIL che arrivava era la metà di quello tedesco. Lo stesso vale per l'Irlanda. E allora che cosa è accaduto?
Grazie ai tassi bassi, questi paesi hanno avuto un boom immobiliare: l’edilizia è un volano dell’economia e infatti questi paesi sono cresciuti, ma al tempo stesso crescevano anche salari nominali e prezzi. In Irlanda i prezzi delle case sono aumentati dal 1998 al 2007 del 180 per cento. Anche in Spagna i prezzi sono aumentati quasi altrettanto. La produttività in alcuni di questi paesi periferici è cresciuta più che in Germania, ma visto che i salari nominali crescevano più della produttività, tali paesi perdevano competitività rispetto alla Germania, dove la crescita dei salari nominali era invece inferiore alla crescita della produttività. La Germania e il suo entourage (Austria, Paesi Bassi ecc) ne hanno guadagnato in termini di esportazioni nette, anche per la crescita della domanda nei paesi periferici. Nel corso degli anni, i paesi periferici cumulavano così un forte debito estero.
Quando la bolla immobiliare è scoppiata e i prezzi delle case sono crollati al di sotto dei mutui, le famiglie sono diventate insolventi e le banche hanno accumulato perdite enormi. Per scongiurare una catena di fallimenti bancari sono intervenuti gli Stati, i cui debiti sono cresciuti repentinamente.
Inoltre, c'è stato un grande contraccolpo fiscale dovuto al crollo del settore immobiliare. L'occupazione complessiva è scesa, facendo aumentare le spese per i sussidi di disoccupazione, e contemporaneamente facendo crollare le entrate, perché il gettito fiscale dipende in larga misura dalle transazioni immobiliari.
Come risultato, la Spagna e l'Irlanda sono passate da avanzi di bilancio alla vigilia della crisi ad enormi deficit di bilancio nel 2009, con conseguente aumento dei rendimenti dei titoli pubblici e peggioramento della situazione.
Lo spread dei rendimenti dentro l'unione monetaria
La crisi economica e i grandi disavanzi e debiti pubblici hanno fatto sì che i creditori perdessero la fiducia nelle economie europee periferiche, e nella loro possibilità di ripagare il debito. Così, i rendimenti dei titoli dei paesi periferici sono via via aumentati, mostrando un differenziale con i rendimenti dei titoli tedeschi sempre più elevato. (Vedi tabelle sugli spread tra i bund tedeschi a 10 anni e i titoli corrispondenti dei PIIGS, aggiornate ad aprile 2011). Ciò significa che per assumersi il rischio di comprare i titoli di questi paesi, gli investitori pretendono dei rendimenti sempre più elevati, e che oramai non esiste più un tasso unico in Europa, nonostante che la moneta sia una sola. 
 
Una stima del rischio di default sul debito per i paesi europei è data anche dai Credit Default Swaps che sono una polizza assicurativa contro il rischio di credito di una controparte. I CDS che assicurano i titoli di Stato dei vari Paesi (versando un premio annuale si viene assicurati contro il rischio del default sul debito e l'assicurazione si impegna a rimborsare il valore nominale delle obbligazioni assicurate) aumentano di prezzo man mano che il relativo rischio del default sul debito aumenta. Anche i CDS sui paesi europei periferici sono dunque continuamente in aumento.

La particolare fragilità dell'eurozona
Eppure, ci sono altre nazioni - in particolare, gli Stati Uniti, il Giappone e la Gran Bretagna - che hanno registrato consistenti disavanzi e i cui debiti sono anche superiori a quelli di molti paesi europei incriminati. Il debito giapponese supera il 200% del PIL, quello Usa il 100%. Eppure questi paesi non hanno subito una perdita di fiducia paragonabile né simili attacchi speculativi.
Qual è la differenza con i paesi dell'euro?

La prima evidente differenza è che i paesi che fanno parte dell’unione monetaria europea non hanno gli strumenti che possono avere altri paesi per migliorare le loro economie ed evitare una vera e propria crisi fiscale: Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato, stampando dollari o yen, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. Ciò consente di mantenere forti disavanzi facendo politiche fiscali espansive per sostenre l'economia in tempi di crisi, senza incorrere in grossi problemi immediati di sfiducia dei mercati e insostenibilità del debito. Resta ovviamente il grave problema dell'inflazione, se la espansione monetaria non è ben diretta verso l'economia reale invece che verso la speculazione, e ben controllata.
La Bce, per decisione statutaria, adotta una politica di tipo monetarista, secondo la quale la Banca centrale si deve limitare a seguire la semplice regola di fissare a priori il tasso di crescita della moneta che deve essere molto contenuto, perché se la moneta in circolazione cresce troppo (con una politica monetaria espansiva), i riflessi si avranno, anziché sulla produzione, sui prezzi, con una conseguente impennata dell’inflazione.
Secondo i monetaristi la politica fiscale non è in grado di correggere le fluttuazioni economiche, perché anche laddove non le provochi essa stessa (quando è utilizzata in modo sbagliato), è comunque completamente inefficace e può provocare effetti benefici solo per un breve periodo.
Da qui l'impossibilità della monetizzazione del deficit e l'importanza assegnata al pareggio del bilancio. Quindi l'acquisto di titoli pubblici per alleviare la crisi può a rigore avvenire solo sui mercati secondari senza corrispondente emissione di moneta.

In secondo luogo, ci sono delle ragioni per cui l'area dell'euro è considerata dagli economisti un'area valutaria non ottimale, e quindi intrinsecamente debole.

Quando all'inizio è stata proposta la moneta unica europea, fu detto che la moneta comune avrebbe avuto grandi vantaggi sul commercio intraeuropeo, grazie all'azzeramento dei costi e delle incrertezze legate al cambio, e tutto questo suggeriva a sua volta grandi benefici per l'economia.
Ma molti economisti (soprattutto americani e inglesi) sin dall'inizio sono stati scettici riguardo al progetto dell'euro e alla sua possibilità di sopravvivere di fronte ai cosiddetti shock asimmetrici, cioè a delle crisi economiche che colpiscano un solo paese o una sola area geografica.
Infatti dato che in un'area valutaria comune manca la possibilità di usare la svalutazione del cambio (strumento che normalmente permette di riportare alla crescita aumentando le esportazioni e abbassando contemporaneamente le importazioni divenute più care), occorrerebbero altre condizioni per riassorbire la crisi, come la mobilità del lavoro e una politica fiscale comune, entrambi assenti nell'unione monetaria dell'euro, e presenti invece negli USA.

Per primo Robert Mundell ha sottolineato l'importanza di una perfetta mobilità del lavoro, che può aiutare ad assorbire la crisi di un solo paese o di una sola regione attraverso degli spostamenti di manodopera verso le regioni più ricche: gli americani sono estremamente mobili, e se i modelli storici sono ancora validi, l'emigrazione riporterà il tasso di disoccupazione degli stati più colpiti dalla crisi in linea con la media degli Stati Uniti in pochi anni, e il problema della disoccupazione sarà notevolmente attenuato con l'emigrazione.
Benché gli europei abbiano il diritto legale di muoversi liberamente in cerca di lavoro, in pratica un'imperfetta integrazione culturale - soprattutto, la mancanza di una lingua comune - rende i lavoratori meno mobili geograficamente rispetto ai loro omologhi americani.

Altro punto importante, sottolineato da Peter Kenen, è quello dell'integrazione fiscale. L'Europa non è fiscalmente integrata: i contribuenti tedeschi non fanno automaticamente parte del regime pensionistico greco o dei salvataggi bancari irlandesi. Non essendoci un bilancio comune, la crisi che investa una sola area non può essere compensata da trasferimenti da parte delle zone economicamente più avanzate.

In sintesi, i paesi che fanno parte dell’unione monetaria europea non hanno gli strumenti che possono avere altri paesi per migliorare le loro economie ed evitare una vera e propria crisi fiscale.
La politica monetaria decisa centralmente di tipo monetarista non ammette il finanziamento dello Stato da parte della Banca Centrale. Non possono svalutare il tasso di cambio a causa della moneta unica. Non possono riassorbire degli shock che colpiscano singole aree né attraverso la mobilità del lavoro, né attraverso dei trasferimenti di bilancio. In più, i singoli paesi non hanno nemmeno un'autonomia nelle decisioni circa i propri disavanzi pubblici per una eventuale politica fiscale espansiva, perché le fonti di finanziamento vengono meno e i conti sono sottoposti ad un controllo sovranazionale.
Di conseguenza i paesi aderenti all'euro continuando così non hanno a disposizione altri strumenti se non una lunga e dolorosa deflazione per ritrovare la via della competitività e rimettere a posto i loro conti.


Le strade percorribili per uscire dalla crisi

La strada percorsa sinora
I ministri finanziari dell' Eurogruppo come primo provvedimento di emergenza verso la Grecia che rischiava il default non avendo più un normale accesso ai mercati per il finanziamento del suo debito, hanno messo a punto un sistema di prestiti bilaterali da parte degli altri paesi membri (ad un tasso di circa il 5%, al di sotto dei livelli di rendimento richiesti dal mercato) ciascuno in proporzione alla sua quota di partecipazione nel capitale della BCE, oltre a un prestito da parte del FMI, per un ammontare totale che copriva quasi interamente il valore dei bond greci in scadenza nel 2010 (53 miliardi di euro).

Successivamente, dato che la crisi comunque si approfondiva e si innescava l'effetto domino coinvolgendo nell'aumento degli spread anche gli altri paesi deboli, i cosidetti PIGS o PIIGS come Irlanda, Portogallo, Spagna, e anche Belgio e forse Italia, l'Unione europea ha deciso di organizzare il salvataggio per i paesi in difficoltà attraverso il cosiddetto fondo europeo salva-stati, un "meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria" (EFSF) di 500 miliardi di euro, cui se ne aggiungono altri 250 garantiti dal Fondo monetario internazionale. I 500 miliardi di euro servono da garanzia per emissioni di bonds europei attraverso i quali si va a finanziare i paesi in crisi.   In pratica, il fondo raccoglie fondi sui mercati e li trasferisce agli Stati richiedenti. I bonds emessi dal Fondo godono di un rating AAA, indice della massima possibile solvibilità e stabilità finanziaria del debitore, e ciò permette a questo fondo di indebitarsi sul mercato dei capitali ad un costo (tasso di interesse) inferiore rispetto a quello cui potrebbero aspirare di ottenere finanziamenti gli Stati membri in maggiore difficoltà.
Questi prestiti del Fondo sono garantiti:
  • in parte dal bilancio della Unione europea (per 60 miliardi) e quindi indirettamente da tutti gli Stati dell'UE
  • in parte da un Fondo costituito dai Paesi dell'Eurozona in proporzione al PIL per 440 miliardi (quindi Germania, Francia e Italia sono i primi garanti)
  • in parte dal Fondo Monetario Internazionale (cui partecipano tutti gli Stati a livello globale, ciascuno per una quota in proporzione al proprio PIL, quindi USA in primo luogo) per un massimo di 250 miliardi e per non più del 50% dell'aiuto proveniente dalle fonti europee.
Il primo utilizzo del Fondo è andato a beneficio dell’Irlanda, per un totale di 85 miliardi di Euro.


Nonostante gli articoli 124 e 125 del Trattato europeo impediscano il finanziamento degli Stati da parte dell'Unione, si è trovata una base legale nell'articolo 122 che prevede «l'assistenza finanziaria dell'Unione» ad uno stato membro «in difficoltà o seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo». La speculazione dei mercati finanziari può essere considerata, appunto, una circostanza eccezionale fuori dal controllo dei governi. 

Per il fututo la UE intende realizzare un fondo anti-crisi che possa offrire assistenza finanziaria all'Unione in maniera permanente, e questa trasformazione da temporaneo a permanente del fondo anti-crisi rende però necessaria una modifica del trattato dell'Unione, dove sarà inserita una clausola che consente agli Stati Membri che hanno come divisa l’Euro la possibilità di creare un meccanismo di stabilità per preservare la stabilità della moneta unica.
A questo scopo sarà usata la procedura di modifica semplificata introdotta dal Trattato di Lisbona (art 148 TUE), che non richiede la firma di un nuovo trattato da ratificare, ma semplicemente un'approvazione da parte degli organi europei. 
I tempi previsti per questa procedura arrivano al 2013, data entro la quale quindi questo fondo, chiamato European Stability Mechanism (ESM),  dovrebbe diventare permanente.

I famosi “Eurobonds” proposti dal Ministro Tremonti e da Jean-Claude  Juncker (Primo Ministro del Lussemburgo) sono un qualcosa di diverso dalle obbligazioni emesse dal Fondo Salva Stati e dal futuro ESM. Dovrebbero essere delle obbligazioni europee emesse normalmente, aldilà di situazioni critiche, da una agenzia del debito paneuropea a beneficio dei singoli Stati e secondo rapporti fissi con il PIL prodotto annualmente dalle singole Nazioni. Questo permetterebbero ai paesi europei di poter accedere ai mercati dei capitali a condizioni omogenee, quindi ad uno stadio intermedio di vantaggiosità rispetto alle emissioni dei singoli Stati. Per questo motivo sono fortemente avversati da Francia e Germania, che al momento emettono debito (rating AAA) ad un costo più basso rispetto a quello degli altri Paesi.



Durante il vertice europeo del 24-25 marzo 2011 inoltre si paesi aderenti hanno stipulato il cosiddetto "Patto per l'euro",   un piano  secondo il quale la concessione di questi prestiti è subordinata alla realizzazione di riforme strutturali, privatizzazioni e politiche di rigore e di austerità per riportare i bilanci in pareggio e ridurre il debito.  I paesi che ce l'hanno oltre il 60% del PIL dovranno ridurlo di un ventesimo per anno, come previsto dal Patto  di Stabilità e di Crescita riformato.   
I governi dovranno presentare annualmente alla Commissione europea un Documento di Economia e Finanza, nel quale programmeranno i saldi di bilancio secondo i dettami del piano di stabilità.  Tale DEF non è soggetto all'approvazione parlamentare. In tal modo anche la politica economica rientrerà nella competenza dell'Europa, senza modifica dei Trattati, mentre sino alla crisi del debito era competenza degli Stati nazionali. 
I Governi dei PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna,  e - nei corridoi delle riunioni internazionali lo si dice apertamente - Italia) in pratica devono adattare le loro strutture economiche a quelle dei paesi dominanti: porre la regola “costituzionale” del pareggio di bilancio, l’innalzamento a 67 anni dell’età minima per andare in pensione e l’abolizione delle indicizzazioni salariali, oltre a politiche di tagli di spesa e vendita di beni del patrimonio pubblico per riequilibrare il bilancio.
 

I dubbi sulla validità di questo approccio
Molti osservatori non credono nella reale efficacia del fondo salva stati, in primo luogo perché i fondi messi a disposizione possono essere sufficienti per il salvataggio dei paesi più piccoli, ma non lo sono per i paesi più grandi, come la Spagna o l'Italia.
Inoltre, l'economista italiano Luigi Zingales ha fatto notare come il meccanismo Efsf, creato per assistere i paesi in situazioni d'"illiquidità", è realizzato come un Cdo (Collateralized debt obbligations) strumento finanziario tristemente famoso per aver generato la famosa crisi dei mutui subprime oltre oceano. L'Europa sta seguendo un percorso simile. L'Efsf emette bond con rating AAA per acquistare i bond dei paesi che hanno difficoltà nel reperire fondi sui mercati (ad esempio, l'Irlanda). Secondo Zingales, si tratta di una pericolosa alchimia che cerca di trasformare piombo in oro: larga parte della garanzia proviene da paesi come Italia e Spagna, a loro volta probabili candidati per una crisi fiscale. Solo la Francia e la Germania sono i garanti affidabili. Fintanto che l'unico paese da salvare è l'Irlanda, non ci sono problemi. Ma se il veicolo Efsf dovesse sostenere la Spagna, non è sicuro che la Germania sia veramente disposta a gravare sui suoi contribuenti tedeschi per salvare i PIIGS. C'è poi il fatto grave che le banche francesi e tedesche sono notoriamente sovraesposte sui titoli sovrani dei paesi periferici, e magari i loro governi sarebbero costretti a salvarle. E, quindi, quanta pressione fiscale graverebbe Francia e Germania in circostanze come queste? In sostanza, una crisi fiscale in Spagna potrebbe far crollare l'intero edificio.

Altro argomento importante, le politiche di austerità tese a realizzare forti avanzi primari per abbattere il debito, con tagli alle spese e aumenti delle entrate, che sono richieste ai paesi come condizione per ricevere gli aiuti del fondo europeo, producono l'effetto di peggiorare la crisi economica: determinano una caduta del PIL, con una conseguente caduta delle entrate fiscali, sicché il riaggiustamento dei conti è una fatica di Sisifo e i sacrifici sociali dovrebbero protrarsi e in misura crescente per parecchi anni prima di vedere forse una luce in fondo al tunnel.

I possibili scenari
La ristrutturazione dei debiti
Secondo molti economisti, l'esito finale non può essere che una ristrutturazione del debito per i paesi più in crisi. Generalmente la si ritiene più probabile per Grecia, Irlanda e Portogallo, mentre sembra meno probabile per l'Italia, che ha un forte risparmio privato e nonostante l'alto debito ha dei deficit più contenuti.
La ristrutturazione del debito può avvenire con modalità diverse, per esempio viene mutato il programma dei rimborsi del debito e di pagamento degli interessi. Comunque una misura quasi sempre necessaria è la svalutazione del valore del debito generalmente tra il 30% e il 60% del vaore nominale.
La ristrutturazione del debito è quindi una misura diversa dal default vero e proprio, in cui il debitore non onora più i propri impegni, in quanto non rimborsa il capitale e non paga gli interessi, quindi ripudia l'intero debito esistente.
La ristrutturazione ovviamente fa perdere almeno per un certo tempo (sinché l'economia non si riprende) la possibilità di ottenere crediti dall'estero. Comporta quindi un riequilibrio immediato della bilancia commerciale e dei conti pubblici. Rimarrebbe dunque la necessità di politiche di austerità, anche se la deflazione diventa in questo caso una strategia potenzialmente più praticabile, anche se sempre brutale, per arrivare a una ripresa.
Uno dei maggiori ostacoli alla ristrutturazione sembra il fatto che le banche tedesche e francesi sono fortemente esposte con i paesi periferici più a rischio, e andrebbero quindi incontro a perdite di capitale gravissime che metterebbero in crisi le rispettive economie, e i conti pubblici se i governi volessero salvarle. Questo sembra essere uno dei motivi per cui sinora l'Europa ha fortemente insistito perché i paesi in crisi accettassero gli "aiuti" del fondo salva stati.

Altra opzione è la ristrutturazione dei debiti, o anche il deafult, con l'uscita dall'euro.
Questo consentirebbe una più veloce ripresa dell'economia grazie alla svalutazione, come successo in Argentina.
Il paese europeo che è arrivato più vicino all'Argentina è l'Islanda, le cui banche avevano debiti esteri che ammontavano a molte volte il suo reddito nazionale. A differenza dell'Irlanda, che ha cercato di salvare le sue banche garantendo i loro debiti, il governo islandese ha costretto i creditori esteri delle banche a sopportare le perdite, lasciando che le sue banche andassero in default.
Allo stesso tempo l'Islanda ha approfittato del fatto che non aveva aderito all'euro e aveva ancora una propria moneta. Ben presto è diventata più competitiva, lasciando scendere molto la sua moneta rispetto ad altre valute, compreso l'euro. I salari e i prezzi dell'Islanda sono rapidamente scesi di circa il 40 per cento rispetto a quelli dei suoi partners commerciali, scatenando un aumento delle esportazioni e la caduta delle importazioni, fatto che ha contribuito a compensare il colpo del crollo bancario.

Ma questo è stato possibile perché l'Irlanda non aveva aderito all'unione monetaria.

Come ha fatto notare Barry Eichengreen di Berkeley, se un paese dell'unione anche solo accennasse a uscire dall'euro innescherebbe una corsa devastante agli sportelli delle banche, in quanto i depositanti si precipiterebbero per evitare la svalutazione spostando i propri fondi in rifugi più sicuri. E Eichengreen ha concluso che questo ostacolo "procedurale" all'uscita, di fatto, rende l'euro irreversibile.
I governi dovrebbero agire di sorpresa, bloccando o limitando i prelievi in via preventiva, e quindi svalutare tornando alla moneta nazionale senza scatenare la corsa.

Il fatto centrale di cui tener conto è che il debito esterno di tali paesi continuerebbe a esser denominato in Euro, e quindi il peso di quel debito aumenterebbe rispetto alla valuta locale svalutata. In caso di uscita dall'euro il debito dovrebbe certamente subire una rinegoziazione (una parte non restituita, e il resto restituito in tempi più lunghi).

Integrazione politica e fiscale e problemi strutturali
L'ultima opzione potrebbe essere quella di procedere in maniera più decisa verso un' integrazione fiscale e politica tra i paesi europei, una delle classiche condizioni necessarie a far funzionare un'unione monetaria.
Un primo passo in questo senso è stato proposto ai primi di dicembre 2010 da Jean-Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo, e Giulio Tremonti, ministro delle finanze in Italia, i quali hanno proposto degli "Eurobonds", diversi dai bonds emessi dal fondo salva stati, perché sarebbero garantiti dall'Unione europea nel suo complesso, ed emessi da un'apposita "agenzia europea del debito (Eda)", su ordine dei singoli paesi europei per coprire il proprio debito, sino al limite del 40% del PIL.
I governi avrebbero accesso a risorse sufficienti, al tasso di interesse Eda, per rimettere in ordine le finanze pubbliche senza essere esposti ad attacchi speculativi di breve termine.
A queste misure si potrebbe accompagnare l’eventuale ristrutturazione del debito dei paesi che, nonostante tutto, dovessero restare insolventi.
Ma contemporaneamente dovrebbero essere affrontati anche i problemi strutturali, connessi alla competitività tedesca e al suo modello di crescita basato sulle esportazioni: la Germania dovrebbe abbandonare almeno parzialmente la moderazione fiscale e salariale, di modo che la sua economia perda un po’ di competitività e basi il proprio modello di crescita non solo sulle esportazioni, ma anche sul rilancio della domanda interna.


Bibliografia: